Il libro si rivolge a psichiatri, psicologi e counselor che si occupano del DOC, che potranno leggere il disturbo anche da un’angolazione alternativa a quella del paziente, cioè dalla prospettiva dei familiari che, spesso inconsapevolmente ma sempre con grande disagio, lo vivono tutti i giorni sulla propria pelle.
Oltre ai professionisti, il libro è diretto anche a tutte le persone che hanno avuto o stanno avendo esperienze analoghe di contatto con il disturbo, poiché l’informazione, la comunicazione, la condivisione e la solidarietà sono altamente terapeutici e aiutano a superare anche le difficoltà che sembrano più insormontabili
Abbiamo voluto approfondire le tematiche trattate nel volume, per questa ragione abbiamo intervistato Rossella Sardi
D. Salutiamo Rossella Sardi e la ringraziamo per la disponibilità dimostrataci, rispondendo alle nostre domande. Quando e perché ha deciso di scrivere La mia vita con un «PADRE DOC»?
R. La mia non è stata una vera e propria decisione: ci sono arrivata piano piano.
Cominciai a scrivere “qualcosa” nel momento massimo del mio disagio, quando dovetti farmi carico di mio padre da sola. In quel momento mi resi conto che il mio vaso stava per traboccare e che, tuttavia, avrei dovuto continuare a tenere duro ancora per un bel po’, senza poter rischiare che la famosa “ultima goccia” alzasse il livello di quel quid che avrebbe provocato una vera, devastante alluvione.
Per questo motivo – per la consapevolezza che mi toccava per forza resistere – cercai delle valvole di sfogo e tra esse trovai anche la scrittura, che è una componente essenziale del lavoro che svolgo da sempre e, com’è noto, può essere una fantastica psicoterapia.
Iniziai mettendo sulla carta alcune descrizioni di fatti e riflessioni (l’incipit del libro), anche derivate dalle mie letture di anni sul tema, che dapprima furono slegate tra loro, approssimative e superficiali. Trovavo difficilissimo esprimermi con il mio solito agio: dopo una vita di traduzione, ossia di espressione “trasparente” di pensieri di altri (anche piuttosto illustri), ho trovato davvero arduo esporre i miei, che per di più erano molto personali e altamente dolorosi.
Nonostante la difficoltà insistei e, dopo un certo rodaggio, il “blocco del traduttore” e tutto il disagio che avevo dentro cominciarono a sciogliersi, a trovare una via espressiva e ad assumere una forma scritta sufficientemente chiara da invogliarmi a continuare, senza una meta precisa, ma solo per il piacere di scrivere e soprattutto di sfogarmi.
Arrivata a un certo punto, mi balenò l’idea che i miei appunti potessero chissà (idea irrealistica e presuntuosa?) aiutare qualcuno che si trovasse in una situazione analoga e mi chiesi se una testimonianza di questo genere avrebbe potuto interessare o sostenere qualcuno: familiari di persone disturbate in primis, ma anche curanti, che avrebbero potuto sentire una “voce fuori dal coro”, diversa da quella dei pazienti medesimi.
Quest’idea mi infuse la voglia di andare avanti e di dare una forma al mio scritto – anche se in seguito avrei scoperto non essere quella giusta. Dopo un paio d’anni di lavoro nelle poche pause strappate alla mia principale attività di traduzione, parlai del mio progetto a Serena Banal, amica e Caporedattrice di Erickson Centro Studi di Trento, la casa editrice per cui lavoro da tempo come traduttrice (grazie Serena, se mi leggi!). Lei, da esperta qual è, mi spiegò che l’impostazione che avevo dato al mio scritto era troppo “tecnica”, cioè troppo simile a quella dei tanti libri da me tradotti negli anni, mentre avrei dovuto “raccontare” più che “spiegare”.
Questo consiglio fu veramente illuminante e guardai il tutto con uno sguardo nuovo, che però poco dopo, alla prova pratica, mi bloccò. Fui presa da un certo sconforto e pensai che quella di scrivere un libro e pubblicarlo fosse un’idea troppo più grande di me, che probabilmente non avrebbe attratto nessuno.
Così, presa dalla necessità di sbarcare il lunario, richiusi il cassetto dei sogni e misi i file del mio sofferto lavoro a riposare in una cartella d’archivio nel mio PC dello studio, dimenticandomene per un buon annetto.
Ma dopo quel tempo arrivò un momento in cui, facendo ordine e pulizia nell’archivio, ritrovai quella cartella e pensai che sarebbe stato un peccato buttare via tutto (ore di scrittura e di crescita personale) e che avrei potuto riprendere in mano il tutto, se non altro per non lasciare nulla di intentato. Mi dissi che provare non mi sarebbe costato poi così tanto, visto che il grosso era già sulla carta – o meglio, in vari file di Word. Dovevo fare più che altro uno sforzo “organizzativo”, che fu poi davvero grande.
Ripartita con il piede giusto, il racconto prese una buona forma e ora eccoci qui, con grande felicità e orgoglio, ma anche una certa apprensione e una buona dose di imbarazzo, per tutti i fatti e le emozioni molto personali che contiene!
D. È quindi un racconto autobiografico? Che cosa prova a ripercorrere le fasi della vita vissute a contatto con un genitore affetto dal disturbo ossessivo compulsivo? Quanto ha condizionato il Suo carattere, le Sue scelte?
R. È decisamente un racconto autobiografico (di più non si può!), sincero e senza “peli sulla lingua”. …Altrimenti, chi potrebbe aiutare? A chi potrebbe interessare una forma di questo genere?
Quando ripenso con consapevolezza alle fasi della vita vissute a contatto con il mio “padre DOC", mi chiedo come ho fatto a passare tutto ciò senza grosse conseguenze, a non ribellarmi, a fare quello che ho fatto, a diventare quello che sono – cioè a non soccombere, nonostante le difficoltà. La risposta sincera che mi do è che io sia stata fortunata (a non sapere che cosa stavo vivendo fino a un certo punto della mia vita), aiutata da alcune persone di riferimento molto significative e anche tenace.
Le mie esperienze familiari, soprattutto precoci, sono state molto forti e certamente hanno condizionato il mio carattere e le mie scelte. In passato i condizionamenti sono stati negativi, ma quando mi sono resa conto di questo, ho cominciato a lavorare sodo per “ribaltarli”, per quanto possibile, in senso positivo, cioè in mio favore. Non è stata certo una passeggiata, ma sono contenta dei risultati!
D. Quando ha preso consapevolezza che Suo padre soffriva di un disturbo ossessivo compulsivo?
R. Sono arrivata a capire che mio padre doveva avere qualcosa di più di semplici peculiarità caratteriali (come l’insofferenza, il nervosismo, la pignoleria, l’impazienza, la pigrizia, l’intolleranza, l’antipatia, l’asocialità, l’egoismo, ecc.) attorno ai 18 anni, quando in Italia si cominciava a sentire parlare del DOC. Mi ricordo che, presa dalla curiosità, andai alla biblioteca pubblica della mia città a spulciare le famose e voluminose “Enciclopedie Mediche” di quei tempi e trovai alcune risposte ai miei dubbi amletici. Partii dal fatto che i suoi rituali sempre uguali a se stessi non potevano essere solo frutto di un “carattere difficile”, come si credeva e si voleva credere all’interno di tutta la mia famiglia paterna.
D. Secondo Lei perché di fronte alle manifestazioni di questo disturbo da parte di Suo padre, Sua madre non si ribellò ma accettò tutto passivamente?
R. Mia madre era una donna d’altri tempi: molto mite e sottomessa, che amava molto mio padre ed era incantata dalla sua “strana” autorevolezza. Proveniva da una famiglia contadina molto retta, semplice e bonaria, i cui membri non avrebbero mai pensato di contrastare un genero dell’alta borghesia e tutta la sua famiglia di persone altezzose e poco disposte a venire a patti con il prossimo. Lei semplicemente si allineò.
Erano i mitici anni ’60 e la mia bellissima mamma (molto curata secondo lo stile omologato che si usava allora) era una brava donna tipica di quel tempo. Anche in seguito rimase molto aderente a quello stereotipo, anche dal punto di vista estetico, e non approfittò della ventata femminista che ci fu poco dopo, continuando a vivere una vita agiata ma di estrema sopportazione, fino a raggiungere il burn-out. Sopportò davvero tanto, ma penso che fu anche felice, soprattutto per il suo status sociale che la appagava: essendo inconsapevole, gli andò bene così, anche perché aveva una mentalità piuttosto pigra e refrattaria ai cambiamenti.
Quando le spiegai per filo e per segno che suo marito poteva avere un disturbo vero e proprio e non solo un carattere un po’ “difficile”, come diceva lei, non volle proprio capire. La sua mente bloccava la comprensione di un fatto così scomodo. Se avesse capito, che cosa avrebbe fatto? Sarebbe scappata a gambe levate? Senza un’autonomia finanziaria e anche mentale sarebbe stato impossibile. Così, disse come sempre che era “difficile e brontolone, ma buono, ordinato, pulito e, per essere un uomo, metteva sempre a posto perfettamente tutte le sue cose”. Non si rendeva assolutamente conto della sofferenza che stava dietro a tutto ciò: per lui, per lei, per mia sorella e per me.
D. Le Sue esperienze di figlia con un padre DOC hanno condizionato anche il rapporto che Lei ha con suo figlio/figli?
R. Ho un figlio che ora ha 29 anni, abita e lavora all’estero, è felicemente sposato e ha raggiunto tutti gli obbiettivi che si è prefissato fino a oggi. Posso dire (senza temere di fare la solita mamma italiana!) che sia un ragazzo equilibrato e di successo.
Quindi, tutto sommato, credo di essere riuscita a non trasmettergli troppa della negatività che mi porto dentro e con cui devo fare i conti tutti i giorni. Certamente, i miracoli non si fanno e qualcosa di “comportamentale” gli sarà ben passato – oltre ai geni del ramo familiare del suo nonno materno, i cui componenti erano tutti piuttosto “svitati”.
…Probabilmente quando era piccolo sono stata un po’ troppo “razionale” (rigida?) e troppo poco “emotiva” (affettiva?) con lui, ma si sa che fare i genitori non è un mestiere facile!
D. E con il sesso maschile in generale?
R. Riguardo a questo argomento potrei parlare una vita intera, visto che purtroppo i condizionamenti sono stati molto importanti. Per non scrivere un altro libro seduta stante, mi limiterò a dire che, come si sa, le figure genitoriali influenzano la scelta del partner, in positivo o in negativo. Io sono stata influenzata in modo marcato, dato che molto – ma molto – marcate erano le caratteristiche di mio padre. Sono in tanti a sostenere che inconsciamente si scelgano partner con alcuni tratti similari ai genitori, oppure che ci si catapulti all’estremo opposto: io ho percorso la prima strada – e non a caso hanno fatto la stessa cosa praticamente tutti i membri della famiglia discendenti dai tanti fratelli di mio madre.
Oltre tutto, da quando mi sono resa conto di questo fatto, la scelta non mi si è affatto semplificata, anzi: sono attanagliata da mille dubbi sulle mie possibili reazioni inconsce e non! …Cerco di barcamenarmi come posso, visto che il marchio è praticamente indelebile e ciò accade in tutti i miei rapporti affettivi (con i partner, ma anche con i parenti, gli amici e le amiche), ma per fortuna non nei rapporti lavorativi, per i quali la mia famiglia paterna grazie al cielo non mi ha insegnato nulla.
D. Come si gestisce un familiare affetto dal disturbo ossessivo-compulsivo?
R. A mio modesto parere e a mia esperienza, gestirlo senza aiuti di tipo sia farmacologico che psicoterapeutico è praticamente impossibile. Si può solo resistere: assumere il ruolo di garanti, esercitare un’infinita pazienza, accondiscendenza e arrendevolezza, abituarsi a “incassare” e a essere sempre messi al secondo posto. …Giusto per la sopravvivenza, sopportare, sopportare, sopportare e guardare fuori di casa, a tanto altro (interessi, passioni, sport, viaggi).
D. Esiste una rete di aiuto in favore dei malati di DOC e dei loro familiari?
R. Oggi credo esista, da poco tempo, anche tramite le associazioni di volontariato, ma quando ero ragazza io non esisteva.
In ogni caso, anche recentemente, negli ultimi anni di vita e di “malattia” di mio padre, io non sono riuscita ad “agganciare” una di queste reti, perché probabilmente per lui era troppo tardi. Non era assolutamente disposto a farsi aiutare e forse non era più aiutabile: troppo anziano e troppo strutturato (possiamo dire granitico). Solo sei anni fa ho trovato molto difficile aprire una breccia: disperata, ho provato a rivolgermi ai servizi sociali del Comune della mia città, a ospedali e centri specializzati, ma ho avuto poche risposte, vaghe e rigide, che non mi hanno consentito di trovare un modo per farlo assistere sulla base del suo disturbo.
Addirittura, un centro specializzato nei disturbi d’ansia, tra cui il particolare il DOC, non ha risposto alle mie svariate mail di richiesta di aiuto, anche a pagamento, e dopo mille telefonate è riuscito solo a dirmi di prendere un appuntamento con uno dei suoi psichiatri, da cui mio padre non ha assolutamente voluto andare.
Alla fine l’unica soluzione praticabile è stata una casa di cura generica per anziani, molto costosa, che ci siamo dovuti fare andare bene, con tutte le difficoltà di un trattamento non propriamente specialistico, anche se accurato (era diventato troppo aggressivo e pericoloso per essere curato a casa sua, con ben quattro badanti, tutte puntualmente buttate fuori di casa dopo un certo tempo).
In quei momenti di ricerca d’aiuto mi sono davvero sentita “abbandonata dalle istituzioni”, per usare una locuzione molto di moda in questi tempi.
D. Quali sono i campanelli d'allarme per riconoscere il disturbo ossessivo compulsivo?
R. Una ritualità dei gesti troppo marcata – per così dire, un ”eccesso di zelo” in determinate azioni, che non sono commisurate ai reali bisogni della situazione in cui si opera. Per esempio, un ordine eccessivo, che non è funzionale a ciò che si fa e ciò che si è, ma è fine a se stesso (l’ossessione). L’ordine per l’ordine, che, se non riesce a essere stabilito, crea una grande ansia e fa star male la persona che lo vorrebbe totale, perfetto e che non riesce mai a raggiungere tale totalità e perfezione (la compulsione a ripetere gli stessi gesti mille volte, nella speranza del raggiungimento).
Come scrive Wikipedia: “Tale disturbo consiste in un disordine psichiatrico che si manifesta in una gran varietà di forme, ma è principalmente caratterizzato dall'anancasmo, una sintomatologia costituita da pensieri ossessivi associati a compulsioni (azioni particolari o rituali da eseguire) che tentano di neutralizzare l'ossessione”.
D. Chi ne è colpito principalmente?
R. Cito nuovamente delle fonti, visto che non sono un’esperta della materia:
“[Il DOC] Colpisce circa il 2-2,5% della popolazione generale: significa che su 100 neonati, 2 o 3 svilupperanno nell’arco della propria vita il disturbo. In Italia, sono circa 800.000 le persone colpite da disturbo ossessivo compulsivo (DOC).”
(https://www.apc.it/disturbi/adulto/disturbo-ossessivo-compulsivo/il-doc-comprensione-e-trattamento/)
“Recenti studi epidemiologici hanno rilevato che il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) sia più frequente di quanto si credesse nel passato. Infatti, la prevalenza del disturbo nella popolazione generale risulta essere del 2-3%, con un rapporto maschi/femmine di 1:1.
[…]
Differenze di genere sono state riscontrate anche nel tipo di Ossessioni e Compulsioni. Nei maschi le Ossessioni più comuni risultano essere quelle sessuali, di esattezza e simmetria; mentre nelle femmine esiste una prevalenza di ossessioni aggressive. Per quanto riguarda invece le Compulsioni, nei maschi è stata riscontrata una prevalenza di rituali più bizzarri e nelle femmine una presenza maggiore di Compulsioni di lavaggio.
(http://www.jpsychopathol.it/issues/2002/vol8-1/lando.htm)
D. Come si manifestava in Suo padre il disturbo ossessivo compulsivo?
R. Mio padre era principalmente maniaco dell’ordine, della simmetria e della pulizia – ma non secondo il senso comune dei termini. Aveva tutta una sua logica, che spesso era poco in linea con la realtà. Aveva degli orari ferrei e delle procedure precise da seguire, da cui non poteva derogare, pena un’ansia profonda, e per non dover derogare a tali “doveri” autoimposti era costretto a controllare se stesso e gli altri, affinché tutto girasse per il verso giusto (il suo verso). Cito alcune sue stranezze, per chiarire che cosa intendo: per lui le luci non potevano mai essere lasciate accese se non si era presenti nella stanza e, se non era così ,stava male e diventava molto nervoso.
Lo stesso capitava anche con la televisione e la radio, se non venivano ascoltate da molto vicino; il conto corrente doveva presentare sempre una cifra tonda e quando non era così, per via dei normali movimenti, faceva i salti mortali per riportare tutto alla sua “normalità”, diventando aggressivo con tutti i coinvolti e soprattutto con i poveri dipendenti della sua banca; doveva sempre essere vestito uguale e, quando comperava dei pantaloni o altri capi nuovi, si disperava perché non erano dell’esatta lunghezza e foggia di quelli vecchi; se si macchiava un abito, si dannava per pulirlo subito, fino a consumarne la stoffa per essere sicuro del risultato; lucidava in continuazione la sua adorata auto e non la usava per paura di sporcarla (quando pioveva era una tragedia); …e potrei andare avanti quasi all’infinito.
E oltre a queste “stranezze”, aveva una paura ossessiva delle malattie (era altamente ipocondriaco), aveva ogni tanto attacchi di panico (sensazioni di morte imminente), era disempatico, solitario, asociale e misogino. Arrivava a odiare certe persone che non riusciva a controllare, soprattutto se erano donne, e aveva una particolare avversione per i membri della sua famiglia (a turno, uno per uno, anche se erano tutti disposti ad aiutarlo) …forse perché avevano caratteristiche troppo simili alle sue!
D. Ha mai avuto sensi di colpa per non essere riuscita a far curare Suo padre?
R. I sensi di colpa hanno accompagnato tutta la mia vita, come racconto in dettaglio nel libro, ma per fortuna li ho portati sulle spalle con una certa “disinvoltura”, riuscendo a non farmi schiacciare. Mio padre era bravissimo a infonderli nelle persone a lui vicine, che faceva sentire inadeguate, pasticcione, incapaci, inopportune – delle nullità.
Paradossalmente, l’unico senso di colpa che non ho avuto è stato quello di non essere riuscita a farlo curare, perché sarebbe stata un’impresa ardua – praticamente impossibile – per chiunque non fosse stato un esperto della materia. Sono rassegnata: credo che gli enormi sforzi che ho fatto e i pochi risultati che ho ottenuto siano sufficienti a farmi sentire in pace con la mia coscienza.
D. È stato molto difficile decidere di ricoverare Suo padre in una struttura di assistenza?
R. Senza mezzi termini, posso dire che è stato un incubo, che è durato mesi e mesi e che ho vissuto con consapevolezza e disperazione rispetto al futuro, quasi fino alla sua fine. Ma per i dettagli rimando al libro, …perché occorrono davvero molte parole per esprimere il contenuto di questo incubo!
D. Dopo la morte di Suo padre, come è cambiata la Sua esistenza?
R. È cambiata parecchio, ma non subito dopo la sua morte, che – non mi vergogno a dire – è stato un vero sollievo. Prima di cambiare in meglio, c’è stato il lavoro di elaborazione e di “archiviazione” di tutti i fatti, le interpretazioni di questi, i sentimenti negativi e i sensi di colpa a cui abbiamo accennato. Il libro naturalmente è servito molto a questo scopo!
Ora, per così dire, c’è un gran senso di lievità: la serenità, acquisita a fatica, di trovarsi su una barchetta verde acqua, sopra un mare blu finalmente calmato dopo una furiosa tempesta. Sono vicina alla riva, ma non l’ho ancora guadagnata. Chissà se ci arriverò mai! …Il totale superamento probabilmente non potrà avvenire. Si può cancellare totalmente il passato? E poi, sarebbe giusto farlo?
Comunque sia, io sto continuando a remare, per arrivare sempre più vicina alla spiaggia assolata.
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