Prima presentazione siciliana di Costruttori di cerchi di Massimiliano Anzivino il 5 dicembre 2014 presso la Feltrinelli Point di Messina, Edizioni Psiconline ha intervistato l'autore al termine della presentazione.
La Feltrinelli Point di Messina, e il suo gentilissimo staff, è stato l'accogliente e accattivante teatro di un momento di condivisione con insegnanti, cittadini e professionisti di diverse categorie professionali: dagli psicologi agli avvocati, dai mediatori agli assistenti sociali.
Il libro è stato introdotto da Francesca Panarello dell'Associazione MediArea di Messina che ha organizzato l'evento e che da oltre un decennio si occupa di temi legati alla gestione dei conflitti e al benessere nelle relazioni interpersonali.
Massimiliano Anzivino, ha presentato alcuni punti salienti del testo, dal senso del lavoro psicologico nelle scuole, agli strumenti operativi, ad alcuni elementi di esperienza vissuta alternando un dialogo sia con il pubblico, per l'occasione volutamente disposto in cerchio, che con la moderatrice dell'incontro.
C'è stato modo di parlare ampiamente del mondo della scuola anche grazie ad una corposa presenza di insegnanti ed ex insegnanti e collegandosi ad un momento di fermento caratterizzato negli ultimi mesi dall'occupazione e autogestione studentesca di diversi istituti superiori in tutta Italia.
Si è parlato anche di visione, di uno sguardo da tenere per rendere la collaborazione fertile tra scuola e psicologia, quindi uno sguardo che punta ad uscire dai ruoli, dalle consuetudini, dalle prassi più consolidate per mettere al centro la persona e ricostruire relazioni e cerchi!
Al termine della presentazione, abbiamo intervistato Massimiliano Anzivino per conoscere più approfonditamente il suo libro Costruttori di cerchi.
Innanzitutto, le chiediamo una spiegazione riguardo al titolo: perché “Costruttori di cerchi”? Come collegare questa figura antica con la scuola moderna e quest’ultima con la psicologia?
Costruttori di cerchi è l'immagine che sintetizza come intendo il lavoro da consulente nella scuola. Quindi non tanto l'esperto esterno che arriva a mettere a posto ciò che non funziona, a fare diagnosi di disagio e prescrivere rimedi, ma un facilitatore delle relazioni tra le persone che a scuola vivono tutti i giorni.
La scuola moderna ha sempre più bisogno di un lavoro di questo tipo fatto di piccoli gesti ma anche di un'attenzione quotidiana e continuata nel tempo. Un'attenzione che però richiede tanta fatica e per uno strano meccanismo rischia di scomparire dalle priorità della scuola stessa. A dire il vero la ricostruzione e la cura delle relazioni non è solo un obiettivo e un bisogno dell'istituzione scolastica, anche la società in generale avverte una grande mancanza in questo senso.
La psicologia in questa prospettiva può essere un importante interlocutore per promuovere una cultura dell'attenzione alla persona e ai contesti nei quali vive, ma solo se riesce a collocarsi con saggezza di fronte a questa sfida, con uno sguardo diverso rispetto alle più consolidate modalità tradizionali.
Perché ha scelto di scrivere sulla scuola, tema già molto complesso, e di porlo in questa prospettiva ampia ed articolata?
Da un lato è stato un bisogno egoistico di rielaborare un pezzo della mia vita professionale, rimettere in fila i pezzi di un mosaico che si è andato componendo man mano, esperienza dopo esperienza, confronto dopo confronto, fatica dopo fatica: il libro è un condensato di oltre un decennio di attività con le scuole, in particolare quelle medie superiori.
Dall'altro il voler rendere comune un patrimonio di pensiero che ancora oggi mi accorgo non essere assolutamente scontato.
Infine è bello poter dire che tutte queste riflessioni “le puoi trovare in un libro!”.
Chi vorrebbe coinvolgere nella lettura del suo libro?
Due destinatari prima di tutto: i colleghi, intendendo con questa parola gli psicologi ma non solo, anche tutti gli altri professionisti che svolgono ruoli preziosi nel lavoro quotidiano. Credo che sia importante farsi carico anche di uno sforzo di condivisione e divulgazione di pezzi di ragionamento per evitare di restare soli di fronte alle difficoltà oppure semplicemente attendere anni, come è successo a me, prima di riuscire a dare un senso ad una pratica professionale complicatissima.
Operare a scuola è davvero un'arte complessa che non si finisce mai di imparare.
L'altro grande destinatario è il “popolo” della scuola: gli insegnanti e i dirigenti, il personale in generale che spesso opera dietro le quinte, professionisti dai quali ho imparato molto ma che credo abbiano tanto bisogno di capire meglio quello che possono ottenere dalle collaborazioni e la direzione di senso che la caoticità dei problemi fa smarrire.
Poi sarebbe bello pensare ad un lettore semplice cittadino, solo perché interessato ad avere uno sguardo più “da dentro” la scuola: purtroppo spesso basa le sue conoscenze di questo settore su pregiudizi e conoscenze superficiali.
Pensa che il suo libro possa interessare i diretti destinatari della sua dissertazione? Soprattutto, crede che si riuscirà a far riflettere scuola, genitori, psicologi, ecc, sulla panoramica da lei descritta e ad applicare concretamente il modello da lei presentato?
La speranza è sicuramente in tal senso e già vedo in questa direzione qualcosa muoversi. Alcuni colleghi mi scrivono per restituirmi impressioni sul testo, insegnanti e cittadini mi rimandano immagini e sollecitazioni dalla lettura che neppure io speravo o credevo possibili. C'è del movimento che mi dà la sensazione che ci sia bisogno di riflettere su alcuni temi come la scuola, i servizi, la visione di mondo che vorremmo ma cercando di mettere le cose insieme, integrarle, collegarle come ho provato a proporre nel testo.
Da qui ad un passo applicativo credo serva molto tempo e ancora tanta dedizione. Chi conosce la scuola e il lavoro nel sociale in genere sa bene che i cambiamenti avvengono con calma, gradualità e mai in modo leggero, serve tanta insistenza e perseveranza. Quindi credo che il libro sia un passo, una rampa di lancio per continuare a camminare in una certa direzione, per offrire magari qualche possibilità in più.
Un elemento chiaro della sua dissertazione è che lei parla di cose che ha vissuto veramente ed in modo diretto. Vorrebbe spiegarci e raccontarci un po’ di più riguardo queste esperienze?
Ho collaborato e lavorato all'interno di scuole fin dai primi anni 2000 attraversando gli istituti medi e superiori prima come volontario, poi come educatore e infine come psicologo. Mi ritrovo oggi a coniugare diverse identità nel mio essere a scuola come consulente.
L'esperienza che più si trova nel libro riguarda gli anni in cui ho collaborato con l'azienda sanitaria della mia città ad un progetto di counselling scolastico, Free Student Box, con una pubblicazione nel 2009 da parte dell'allora gruppo di lavoro tra l'altro proprio con Psiconline.
Sono stati anni intensi e in qualche modo pioneristici di un'attività che in quel periodo muoveva se non i suoi primissimi passi, sicuramente i primi di un'avventura intensa e complessa. La grande scommessa era quella di portare un pezzo della cultura dei servizi sanitari dentro la scuola e con essa un'idea di prevenzione e di possibilità di utilizzare alcune figure professionali come gli psicologi sulle quali ancora persistevano interpretazioni bizzarre.
Ho incontrato una scuola che non mi aspettavo, per certi versi molto più articolata nel viverla dalla prospettiva di consulente, dall'altro sofferente e affaticata dalle mille incombenze e richieste alle quali in qualche modo la mia presenza provava a dare una risposta attraverso colloqui, percorsi di counselling e invii ai servizi del territorio.
Ben presto ho capito che ciò non era assolutamente sufficiente per incontrare veramente i bisogni che a me arrivavano e, non so quanto in modo consapevole, ho cominciato ad allargare lo sguardo e le sperimentazioni integrando progettazione, formazione, lavoro sui gruppi, divulgazione e promozione culturale, consulenza all'organizzazione scolastica più che ai singoli in un percorso che mi ha portato all'interno di quasi tutte gli istituti superiori di Reggio Emilia e in altri dell'Emilia Romagna dove tuttora lavoro.
Da dove nasce il modello che descrive nel suo libro? È riuscito ad applicarlo di persona e, se sì, potrebbe riassumerci i risultati che ha potuto osservare?
Non so se possiamo parlare di un vero e proprio modello. Certamente ho avuto molti ispiratori, colleghi dai quali ho imparato tanto e dai quali ho preso spunto per capire meglio quello che io stesso stavo facendo, ma anche esponenti di altre discipline che a volte sembrano lontani quando in realtà i punti di contatto sono numerosi.
Si è trattato di una lenta trasformazione e in alcuni momenti è stato quasi doloroso abbandonare un modo di fare psicologia scolastica più tradizionale e rassicurante. In questa fase la mia esperienza anche come educatore mi ha aiutato a mescolare le carte e a porre la relazione, quella costruita in modo più formale ma anche e soprattutto quella costruita in modo silenzioso alle macchinette del caffè e nei rumorosi intervalli degli studenti, come elemento principale del mio lavoro.
Da qui l'ostinata visione non tanto di un progetto sul disagio ma di una rete di progetti per il benessere: ha preso concretezza, dove ho potuto per qualche anno seminare, l'idea che fosse la scuola stessa il destinatario della mia consulenza e in più chi la viveva fosse l'attore da rimettere al centro, non certo io come psicologo.
Difficile dire dei risultati: i contesti nei quali ho lanciato questa proposta sono stati tanto diversi quanto imprevedibili, ogni anno attraversati da tanti e tali cambiamenti che risulta davvero azzardato ipotizzare cause ed effetti. Quello che ho potuto osservare è la nascita di gruppi di lavoro che hanno continuato anche in autonomia un lavoro che insieme avevamo impostato, a farsi man mano più autonomi e promotori di un certo modo di fare scuola e di abbordare le criticità nascenti. Ho visto germogliare una cultura della psicologia più vicina alla realtà, meno ingabbiata in posizioni sterili e difensive rispetto al cambiamento. Ho ritrovato la forza di progetti integrati esportati in altri istituti come pezzi che vanno insieme, che possono coniugarsi o pensarsi come una cosa sola.
Secondo lei, quanto siamo lontani dall’attuazione del suo progetto e di tutte le dinamiche e conseguenze che esso porta con sé?
C'è ancora tanto da fare. I tempi sono purtroppo diversi da quelli che umanamente possiamo sperare per essere contenti di vedere cambiamenti concreti e visibili. Le istituzioni hanno i loro ritmi che vanno capiti e rispettati. Occorre anche saper guardare nei dettagli e nelle pieghe di una giornata scolastica a distanza di alcuni anni dall'avvio di un progetto per poter cogliere quei movimenti di presa di consapevolezza delle persone, di decisione dell'istituzione, di modalità differenti di trattare un'emergenza o un problema.
A distanza di 10-15 anni sento di dire che tanto si è fatto e anche tanto si è mosso e anche una modalità più tradizionale di essere consulente a scuola ha avuto i suoi meriti. Quello che cerco di sottolineare in questo libro è che non possiamo limitarci a questo se vogliamo davvero essere un supporto autentico. Siamo piuttosto in dovere di fare un salto di qualità: ciò vuol dire non guardare più a quel pezzettino di lavoro che ci riguarda ma di aprire col grandangolo a tutta la scuola intesa come organizzazione e come comunità.
Per farlo ho descritto qualcuno degli strumenti che ho utilizzato, penso ai progetti accoglienza, alla peer education o all'apprendimento cooperativo, non tanto come mete bensì come stazioni intermedie per la creazione di fiducia e il riavvio del motore relazionale.
Al termine del libro parlo della prospettiva di chi pianta alberi, alla pazienza e alla visione per certi versi folle e sognatrice alla quale voglio continuare ad ispirarmi ogni volta che una scuola mi chiede di fare un pezzo di strada insieme.
Non pensa che questo modello potrebbe non essere efficace in determinati contesti? Se ciò si verificasse, cosa consiglierebbe a riguardo?
Assolutamente, credo ci siano tanti contesti dove non si può fare molto di più di quello che già si porta avanti. Questo per tanti motivi che a volte bisogna solo accogliere e accettare. La scuola è a volte uno stratificarsi di situazioni difficili che nel tempo hanno ossificato quei meccanismi che hanno bisogno di essere estremamente fluidi: parlo della collaborazione, della pazienza, della creatività, dell'innovazione, delle abilità emotive.
Credo però che anche in questi contesti avere in mente la proposta di questo testo possa aiutare a mettere mano, o quantomeno a provarci, ad alcuni nodi e ad innestare quelle piccole perturbazioni che poi altri potranno rendere cambiamenti più concreti e visibili.
Il guaio è che a volte sono proprio i consulenti ad imbrigliare ancora di più la scuola nelle sue contraddizioni senza rendersene conto certo, ma anche senza rischiare nulla.
Perché qualcosa è necessario rischiare, mettere in gioco e in discussione per poter generare bellezza in un contesto che tanto spesso rimanda un'immagine di apatia e di poca speranza.
Come dovrebbe muoversi un professionista interessato ad applicare questo suo modello, magari nel suo contesto lavorativo?
Ho scritto un decalogo per mettere a fuoco alcuni punti importanti. Lo ripropongo:
1 Conosci bene la scuola, datti il tempo di capirla, raccogli più informazioni che puoi
2 Accogli la porta che ti viene aperta per cominciare ma tieni in mente il piano finale
3 Non accettare compromessi eccessivi: c'è un limite che non puoi superare
4 Prova, sperimenta, mescola, rischia qualcosa, fatti guidare dalle circostanze
5 Crea buoni rapporti, sii cordiale e sorridente, dormi bene la sera prima
6 Stabilisci collaborazioni: non sei un mago, da solo non ottieni nulla
7 Aggancia gli adulti attraverso i ragazzi
8 Pensa: è la cosa più importante che tu possa fare
9 L'emergenza non esiste: se ne occupano polizia e pronto soccorso, non tu
10 Lavora bene, crea qualcosa di nuovo, divertiti
Come vedete è più una guida allo spirito con il quale intraprendere questi viaggi che non un vademecum professionale.
In tutto il testo insisto molto nell'interrogarsi sul senso del lavoro a scuola perché è la bussola essenziale di ogni azione, la boa alla quale aggrapparsi nei momenti inevitabili di difficoltà e confusione.
A suo parere, quello da lei presentato potrebbe essere un progetto applicabile in altri contesti, ovviamente con le dovute modifiche, dettate dall’ambito di pertinenza?
In questi anni mi è capitato di lavorare anche fuori dalla scuola. Ho scoperto con piacere la potenza dei progetti educativi cosiddetti extrascolastici: dai doposcuola ai centri di aggregazione giovanile, dalle ludoteche ai percorsi partecipati coi giovani. Ne ho sentito le potenzialità come i anche i limiti in situazioni davvero molto lontane da quelle che le scuole mi hanno trasmesso in questi anni.
Mi sono reso conto così che il modello di lavoro con il quale ho approcciato questo mondo, spesso intrecciato tra privato sociale e amministrazioni pubbliche, era molto simile, giocato certamente in altri contesti e con modalità o strumenti diversi ma sempre orientato a creare cerchi, a mettere insieme, a costruire comunità.
Di più: ho capito come tali ambiti possano essere complementare e necessari l'uno all'altra per essere in equilibrio, efficaci, potenti. Ma anche qui è questione di piantare alberi, forse un tantino più rapidi nella crescita, ma sempre alberi sono!
Potrebbe spiegarci la motivazione per la quale ha scelto uno stile diretto, ma anche umoristico, in un libro che, comunque, segue uno standard argomentativo? Non teme che il lettore possa crederlo privo di validità, oppure, è un escamotage per mantenere l’attenzione del lettore su questo argomento?
Ho riflettuto a lungo sullo stile da utilizzare e nei primi tentativi di stesura mi sono ritrovato a ricalcare il linguaggio, le parole, i modi dei miei cari testi universitari e di una argomentazione tanto vicina al mondo accademico della ricerca e della psicologia. Mi sono reso conto dei miei limiti prima di tutto nel poter percorrere una strada di questo tipo e ho cercato di essere quello che sono anche nello stile, nel rendere il più semplice e scorrevole possibile un concetto non certo nuovo o originale. Certamente più originale nel taglio assolutamente divulgativo ma anche leggero.
Ho deciso di inserire qualche passaggio anche divertente perché comunicasse l'umanità che c'è dietro questi anni di lavoro, le storie fatte di emozioni diverse ma anche il guardare avanti nonostante in certi giorni davvero sia difficile farlo.
C'è tanto che non funziona nel nostro mondo e lo sappiamo, non c'è bisogno di sottolinearlo. Credo ci sia invece molto bisogno di avere uno scenario di speranza e di luce verso cui guardare e questo stile mi è sembrato più coerente con tale tentativo.
Vuole aggiungere qualcosa a quanto già detto e scritto (una precisione, una spiegazione, un commento conclusivo)?
Scrivere è un'esperienza davvero illuminante, forse un lusso oggi per gli operatori sociali, spesso soffocati da ritmi davvero insostenibili. Vorrei sottolineare che non mi considero uno scrittore e con in miei colleghi condivido questi vissuti che a lungo mi hanno tenuto lontano dal completare questo libro tenuto nel cassetto per qualche anno prima dello slancio finale.
Scrivere per chi lavora in questi campi in un certo senso è un forma di dovere per non dire un obbligo, verso se stessi per stare meglio, verso gli altri per sostenerli e accompagnarli nella propria ricerca. Grazie a Psiconline che sostiene questo bellissimo dovere.
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